Oslo non è poi così differente dalle altre città del nord Europa. Un miscuglio di stili, visioni, modi di essere che sono la quintessenza dell’idea di “Scandinavia”.
Ma c’è qualcosa, una strana sensazione, che si avverte solo qui. Non riesco a capire…
Sono seduto ad un tavolino di un caffè nella zona del porto. Alla mia destra si erge il Municipio che, con il suo orologio astronomico incastrato tra mattoni fatti a mano, dà il benvenuto a tutti coloro che provengono dal mare. E’ qui che ogni anno si assegna il Premio Nobel per la pace. Alla mia sinistra la fortezza di Akershus difende, imponente, la città dal XII secolo e accoglie decine di giovani che vengono a rilassarsi, a leggere un libro, a fare conoscenze, approfittando degli enormi spazi verdi che circondano il castello. Di fronte c’è la banchina di Aker Brygge, il vecchio quartiere dei docks, oggi trasformato nella zona più cool di tutta la città e ricca di locali jazz. Da qui il silenzio è mistico, eppure sono inquieto. Quella strana sensazione…
Ho fame. Chiedo alla cameriera, si chiama Lisa, di consigliarmi un piatto tipico. Lei mi porta un gigantesco hamburger di renna affogato in salsa madera e circondato da patate al forno e cipolle caramellate. Tipisk norsk mi dice. E’ ottimo. Pago l’equivalente di 50 Euro (dopotutto la Norvegia è uno dei paesi più cari e ricchi del mondo… il potere del petrolio!) e mi incammino verso la Karl Johans Gate, l’arteria principale che collega la stazione con il palazzo reale.
Nella zona di Jernbanetorget, su cui si affaccia la stazione, c’è la Oslo borghese e capitalista, la Oslo dei migranti che, sempre di più, si spingono a queste latitudini in cerca di una vita migliore (e quasi tutti la trovano), la Oslo noir e torbida di Jo Nesbø e del commissario Harry Hole, la Oslo figlia degli anni ’90 tutta black metal, calcio e Kjetil André Aamodt e penso a quanto sia cresciuta questa città in pochi decenni. Lungo la Karl Johans si trova il Parlamento norvegese, lo Storting, culla della democrazia e della trasparenza del Paese scandinavo e qui decido di prendere la metro.
Una voce registrata avverte: “neste stasjon: Tøyen”. E’ la mia, devo scendere.
A pochi metri c’è il museo dedicato ad Edvard Munch, il pittore dell’angoscia, della vita e della morte. All’interno è custodito anche il celebre Urlo, un capolavoro nato probabilmente da un attacco di panico ed è quando mi ci trovo davanti che ho come un’epifania.
In quel momento capisco cos’è quella sensazione che mi attanaglia lo stomaco: è l’urlo silenzioso della natura che dai fiordi impenetrabili, dalle montagne abitate dai troll, dai boschi nevosi, supera il cemento della metropoli e arriva dritto a me.
Sono pochi i posti al mondo dove la presenza della natura è così ossessiva e dove è l’uomo a doversi adattare ad essa e non viceversa. In Norvegia si entra in punta di piedi, per non far rumore, è il regno della luce e dell’oscurità e in cui il tempo è scandito dal ritmo della natura che fa sì che l’uomo moderno, abituato a pensare in ore e minuti, si senta impotente.
Felice, mi incammino verso l’albergo e vedo Lisa sorridermi mentre sparecchia l’ultimo tavolo.
“A quel tempo ero affamato e mi aggiravo per Christiania (Oslo), quella strana città che nessuno lascia senza portarne i segni.” Knut Hamsun – Sulten.